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lunedì 26 settembre 2011

Essere un'isola lontana


E' passato un po' di tempo, però mi sembra giusto raccontare questa storia.
L’altra notte prima di andare a dormire ho letto una mail che Angela ha inviato da Zanzibar. E’ lì a lavorare. A lavorare in paradiso. Angela, che chiamerò Zoe, è una privilegiata: lo dico sempre che me ne andrei su un’isola fantastica e lei è lì veramente. A lavorare nella cooperazione internazionale. Una tipa in gamba che, prima di essere trasferita in mezzo all’Oceano Indiano, ha passato più di un anno in Tanzania. Cosa faceva di preciso non lo so, cosa faccia nell’isola delle meraviglie nemmeno so. Io l’ho vista per una settimana e basta. Eravamo a Riano Flaminio, rinchiuse in una specie di convento e facevamo un ritiro un po’spirituale e un po’ tecnico che ci avrebbe preparati a quello che ci aspettava: un anno come caschi bianchi in servizio civile internazionale. Eravamo quasi 200 e tutti saremmo partiti per luoghi del mondo sconosciuti, problematici e soprattutto molto lontani. L’ho vista una settimana e basta. E poi ci siamo continuate a scrivere mail da un paese all’altro, anche se alla fine io non so chi sia lei e lei non sa chi sia io. E in questi casi ci si scrive con più facilità e si dicono anche quelle cose che non si dicono alle persone che conosci benissimo perché altrimenti le fai preoccupare. 
Comunque, ecco cosa Zoe ha scritto: “A Zanzibar c’è il Ramadhan. Dura 30 giorni, durante i quali il volume dell’isola scende di parecchi toni. Dalle 3:45 di notte fino alle 6 e mezza di sera non si mangia, non si beve, non si fuma. In modo definitivo e tiranno come solo una religione così può imporre. Non si fa sesso, non si fanno cattivi pensieri, non ci si arrabbia, le donne sono molto, molto più coperte.

Il Ramadhan. È assolutamente stancante e infruttuoso, ma ha anche un lato positivo: alle 6 e mezza, dopo che il muezin canta, le pance si riempiono e la vita si risveglia.
Poi arriva la luna nuova e l’isola sboccia, torna a nuova vita come un incantato fiore. Tutto è permesso.

Ma è proprio quando la festa raggiunge il suo apice che la strega cattiva arriva a guastare la gioia degli invitati.

Ci eravamo appena concessi un sospiro di sollievo ed ecco che una nave cargo affonda nell'oceano portandosi sotto tutti i
poveracci che vi si erano stipati dentro, perché, anche se è
illegale, il biglietto costa meno della nave normale, quella che prendo io.

La domanda è quanti erano. Tanti: mille più o meno.
Gli uomini sanno nuotare. Un po’ di sopravvissuti ci sono. Tra donne e bambini non si è salvato nessuno.

Non mi piace la cronaca nera dettagliata: la trovo inutile, incivile e irrispettosa, ma questa volta credo sia
necessario essere un po’ macabramente precisi. Perché credo che l’eco dei nostri pianti sia arrivato in Europa, ma non abbastanza. Voglio che si sappia: non può rimanere sotto silenzio che così tanta gente non riemergerà da questo mare semplicemente perché un gruppo di delinquenti ha stipato in una bagnarola troppe persone. Non è una disgrazia, è una tragedia cercata. La nave è troppo pesante, la nave affonda.

L’unica cosa che si può fare, se non puoi affidarti al mitico dio che tutto vede e tutto risolve, è cercare di diffondere la notizia.
Loro non reagiscono: seppelliscono i loro morti e tornano a sorridere perché è inutile disperarsi. Io rimango commossa di fronte alla forza passiva di questo popolo, una forza che
permette loro di sopportare tutto, una forza che imploro un giorno riesca a sfociare in rabbia. E quel giorno lontano potremo dissetarci di giustizia come abbiamo
fatto con l'acqua fresca nelle allegre serate di Ramadhan”.

Anche in Paradiso la vita è ingiusta. Noi che si può fare? Solo far sapere. E sperare che l’ingranaggio sbagliato venga sostituito da quello giusto.


Altre notizie qui: http://blog.contrarymagazine.com/2011/09/notes-on-a-zanzibar-tragedy/
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/sep/13/zanzibar-ferry-disasters-mv-spice-islander


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