Stazione di Ifakara. La
pietra miliare dice che mancano 386 km, incalcolabili in termini di ore. In questa stazione il prodotto più in voga sono i ghiaccioli
fucsia il cui stecco è un bastoncino più secco che dritto. Se non fossi una
fifona ipocondriaca, lo mangerei perché ha un colore pazzescamente chimico eppure
incredibilmente fashion. Ma non ho il coraggio di pensare, anche in base a
quello che ho scritto sopra a proposito dei bagni, a cosa potrebbe significare
avere scompensi intestinali.
La
Tanzania sembra molto più evoluta dello Zambia, almeno in termini di
agricoltura. Certo, bisogna ammettere che la terra tanzaniana è migliore della
sabbia che avevamo a Mongu, Western Province zambiana, sulla quale, comunque,
un po’ per testardaggine, un po’ per necessità, siamo riusciti a far crescere
carote, broccoli, ravanelli, pomodori, basilico, anche se abbiamo avuto delle
grandi delusioni con i cocomeri e i finocchi. Qualunque sia la ragione di tutto
questo, certo è che qui si vedono un po’ da tutte le parti, campi coltivati. E
un migliore sfruttamento del suolo e del territorio. Le montagne, le palme,
lineamenti diversi del paesaggio e dei volti che incroci. Una volta e basta.
Si
cambia, oggettivamente, passando il confine. Anche sul treno ormai i kwacha (moneta zambiana) non
sono più ammessi. Ormai le bottiglie di acqua le possiamo pagare solo in
scellini tanzaniani. E con gli scellini tanzaniani che ci ha lasciato Daniele
prima di partire pagheremo il nostro primo wurstel sul treno. E
l’ennesima birra.
La quarantottesima ora. L'abbiamo celebrata. Abbiamo attraversato il Selus Game reserve,
visto tanti fagoceri, impala, carcasse di elefante che ci hanno fatto pure
pensare di aver visto dei leoni. O magari dei vampiri. L’immaginazione corre,
su questo non ci piove. Pure il caldo ci mette del suo. E’ diventato insopportabilmente
appiccicoso e la pelle a contatto con la stoffa sintetica del sacco a pelo a
mummia fa una reazione vagamente disgustosa. Siamo vicini all’Equatore e quando
potremo contare su un bagno tiepido nell’Oceano Indiano, probabilmente non ci
lamenteremo più. Alla stazione di Kisaki, dove il treno si è fermato dopo
pranzo, abbiamo visto nuovi prodotti in vendita sulla testa delle signore che,
col portamento di un bersagliere e la grazia cauta di un funambolo, li
espongono ai potenziali acquirenti abbassando i prezzi ogni volta che il treno
sta per ripartire. Centinaia di donne portavano in testa cesti di noci di cocco
piccole e apparentemente deliziose. Sono andata a cambiare le grandi banconote
in piccole banconote al vagone ristorante perché le donne equilibriste e venditrici il resto non ce l’hanno
mai. Cambiati i soldi mi sono affacciata al finestrino del vagone ristorante
alla ricerca delle noci di cocco che stavo sognando, ma in quel momento tutte
le signore del cocco si erano spostate verso la parte alta del treno, cioè
verso la terza classe, ovvero dove ci sono gli acquirenti che danno le più grandi
soddisfazioni.
Nella
terza classe non ci sono le cuccette, si sta seduti nello scompartimento dove
entrano fino a 8 persone. Poi ci sono i viaggiatori in piedi o in transito tra
un vagone e l’altro. Sono così, a loro agio. Non si danno fastidio a vicenda,
anche se sono così vicini che dire che si toccano è dire poco.
Il
contatto fisico in Africa è qualcosa di imprescindibile nei rapporti umani. E’
normale, perché è naturale. Come svegliarsi quando esce il sole, camminare sotto la pioggia senza
ombrello, come togliersi le scarpe per ballare, come piangere se si è tristi,
ridere se si è felici, come trasportare una bombola di gas sulla testa, come
fare una domanda se si dubita. Due amici possono andare in giro mano
nella mano, i conoscenti si abbracciano e ad ogni persona che si incontra si
stringe la mano ogni volta che la si incontra, anche se questo significa
stringere la stessa mano anche sei o sette volte nell’arco della stessa
giornata.
Ecco il contatto. Tralascio la parentesi ballo perché il pensare al loro movimento fluido, felino, sensuale, ammiccante, mi crea complessi di inferiorità. Eppure devo essere forte come quando ho deciso di mettere piede sul treno. E non fare finta di niente. Loro ballano divinamente, ecco. C’è chi balla più divinamente di qualcun altro, ma la tendenza è quella. Cioè quella di ballare. Ballare col corpo, col cuore, con l’anima, con il sentimento, con la passione e senza nessuna sovrastruttura che possa limitare l’angolo di ancheggiatura o la profondità di un affondo verticale. Ci ho provato, io, ad imitarli, ma non funzionava. Sì, le danze africani sono piene di sesso, forse proprio per questo così sentite. Così calde, ipnotiche, inimitabili. Così per noi tabù. Perché le danze africane non lasciano niente all’immaginazione. Mentre a noi hanno insegnato che certe cose è bene immaginarle. E in ogni caso è meglio non parlarne.
Ecco il contatto. Tralascio la parentesi ballo perché il pensare al loro movimento fluido, felino, sensuale, ammiccante, mi crea complessi di inferiorità. Eppure devo essere forte come quando ho deciso di mettere piede sul treno. E non fare finta di niente. Loro ballano divinamente, ecco. C’è chi balla più divinamente di qualcun altro, ma la tendenza è quella. Cioè quella di ballare. Ballare col corpo, col cuore, con l’anima, con il sentimento, con la passione e senza nessuna sovrastruttura che possa limitare l’angolo di ancheggiatura o la profondità di un affondo verticale. Ci ho provato, io, ad imitarli, ma non funzionava. Sì, le danze africani sono piene di sesso, forse proprio per questo così sentite. Così calde, ipnotiche, inimitabili. Così per noi tabù. Perché le danze africane non lasciano niente all’immaginazione. Mentre a noi hanno insegnato che certe cose è bene immaginarle. E in ogni caso è meglio non parlarne.
A forza di chiacchierare e perdere il filo del discorso, il treno è ripartito e io, che ero intenta a fare uno studio sociologico in terza classe - dove si mangiano ali di pollo e banane grigliate
mentre si cambiano pannolini ai bambini sui sedili del treno bevendo coca cola, il tutto contemporaneamente perché sono dei fenomeni - non ho comprato le noci di cocco. E mi sono persa nella coda del treno. La strada la ritrovo, altrimenti non ho alcuna chance nel mondo crudele a nord di dove sono ora.
Tra
uno scherzetto e l’altro siamo a 15 minuti da Dar Es Salaam, dicono. Sono le
17:33, sono, cioè, quarantanove ore e trenta minuti che sono in treno, insediata nella
cuccetta B2 dello scompartimento C2 della linea Kapiri-Dar. Tra
poco si scende. Cioè si cammina sulla terraferma, si guarda il mondo da fermi.
Si guarda il mondo da fermo. Ci si dovrà vestire, si berrà la birra solo la
sera, non si mangeranno uova sode, si potranno indossare le zeppe, non si
vinceranno stipendi a briscola, si andrà al bagno senza timore di scivolare.
Non si sentirà l’odore di salvia. Non ci si volterà a guardare quello che è già
passato. Non si darà ascolto al romanticismo. Il
tempo scapperà senza lasciarti il tempo di riflettere che avresti potuto
impiegarlo meglio. Il tempo passerà e non avrai avuto il tempo di scrivere di
lui. Sono più bella oggi, più bella di Mary Poppins (mitica). Sono pronta a prendere
quel coniglio, superarlo, decidere io dove si va. Sempre che anche stavolta non
resti ad aspettare che il treno riparta senza avermi fatto scendere da qui.
E' il 10.12.2010 e siamo sulla vetta del Kilimangiaro. Beh, si fa per dire. Cioè, non a 5.896 metri o quanti diavolo sono (in compenso ieri ero sul tetto dell’albergo più lussuoso di Dar es Salaam, cioè il Kilimangiaro Kempiski a bere mojito e a mangiucchiare arachidi bollite e chips appena fritte. Di lì la citazione). Sono sul terzo piano del traghetto che ci porterà a Zanzibar. Il viaggio ci è stato narrato come un continuo conato di vomito. E’ chiaro che nessun racconto può oramai spaventarci. Anzi, noi ci mangiamo sopra. In un’ora e mezzo saremo a Zanzibar, dopo 50 ore di treno, un brindisi sul tetto del Kilimanjaro Kempiski, una cena all’Oriental e una puntatina alla roulette. Quasi non mi ricordo più dove è che sto andando. Forse perché ho capito che non conta così tanto quello viene dopo quanto quello che c’è già qui e ora. Mi servivano 50 ore di treno per diventare un po' saggia.
E' il 10.12.2010 e siamo sulla vetta del Kilimangiaro. Beh, si fa per dire. Cioè, non a 5.896 metri o quanti diavolo sono (in compenso ieri ero sul tetto dell’albergo più lussuoso di Dar es Salaam, cioè il Kilimangiaro Kempiski a bere mojito e a mangiucchiare arachidi bollite e chips appena fritte. Di lì la citazione). Sono sul terzo piano del traghetto che ci porterà a Zanzibar. Il viaggio ci è stato narrato come un continuo conato di vomito. E’ chiaro che nessun racconto può oramai spaventarci. Anzi, noi ci mangiamo sopra. In un’ora e mezzo saremo a Zanzibar, dopo 50 ore di treno, un brindisi sul tetto del Kilimanjaro Kempiski, una cena all’Oriental e una puntatina alla roulette. Quasi non mi ricordo più dove è che sto andando. Forse perché ho capito che non conta così tanto quello viene dopo quanto quello che c’è già qui e ora. Mi servivano 50 ore di treno per diventare un po' saggia.
Quando
ieri siamo scesi dal treno e la sensazione di vertigine ci ha travolto e ci ha
lasciato senza protezione, potevamo essere vulnerabili. E invece no. Eravamo
più forti di prima. Perché consapevoli della strada fatta.
Abbiamo avuto il tempo di capire e di apprezzare il suolo della nostra
destinazione. Ora Dar Es Salaam scompare lentamente dalla mia vista, sono in
pieno Oceano Indiano. E si comincia a vedere Stone Town. Che poi scoprirò essere una cittadina tra il magico e lo speziato, tra l’Oriente,
l’Occidente, il nord, il sud dalla quale mi lascerò incantare. Con i chiodi di garofano, le porte
intarsiate, i tinka-tinka e le bellezze celate. Le mandorle, le passion fruit, le noci
di cocco, l'eleganza, l'hennè, gli spiedini di crostacei e i sensi unici.
Ma
penso che questa sia un’altra storia. Una storia non ancora da raccontare. (Non so dove sia il coniglio. Devo tenerlo
d’occhio). Zanzibar, com’è?! Banalmente: il paradiso. Se
questo non basta, non resta che salire di nuovo sul treno.
E
continuare a rincorrere i sogni da lì, dove i sogni sono quello che c’è. E non per forza quello che ci sarà. O quello che ti dirò domani.
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